STRUMENTI DI COTTURA «2» – FERRO

I MATERIALI, PARTE II, FERRO
da Redazione | Mag 25, 2020 | Qualità e procedure operative | 0 commenti
I MATERIALI, PARTE II, FERRO
Ferro (acciaio al carbonio e ghisa)
L’importanza del ferro (₂₆Fe) per lo sviluppo della tecnologia e della stessa civiltà umana supera quella di qualunque altro materiale. Non è esagerato affermare che, senza un metallo facilmente reperibile e lavorabile, versatile, durevole e robusto come il ferro, buona parte dei progressi dell’Uomo in ogni campo, specialmente nell’ingegneria e nell’architettura, non avrebbe avuto luogo. Basti pensare alla Rivoluzione Industriale e all’invenzione che ne fu simbolo: la macchina a vapore, semplicemente impossibile da costruire nel Settecento in un metallo diverso dal ferro.
Anche nel campo culinario, il ferro è usato da tempi antichissimi e mantiene un posto d’onore nella cucina professionale sia occidentale, a base francese, sia estremorientale, a base cinese. Abbiamo specificato «professionale» perché, in ambito domestico, il pentolame in leghe ferrose è stato quasi totalmente rimpiazzato dall’acciaio inox e dall’antiaderente. Tuttavia, proprio come il rame vanta un piccolo ma crescente numero di appassionati, anche il ferro sta tornando in auge fra chi intende riappropriarsi delle tecniche classiche, come pure fra quanti non amano l’antiaderente e trovano nel ferro un’efficace alternativa «vintage».
Prima di esaminare le caratteristiche del pentolame, chiariamo che il termine «ferro», a stretto rigore, non è esatto: in pratica, il ferro non è mai usato in purezza, ma legato per lo meno al carbonio (₆C) in ragione anche del processo siderurgico, che sfrutta il calore generato dalla combustione del carbon coke.
Il pentolame commercializzato come «ferro» è quindi, più correttamente, «acciaio al carbonio» se il tenore di quest’ultimo non supera il 2,1 % –– al di sopra di tale valore, la lega prende il nome di «ghisa». Entrambi i materiali sono impiegati con successo in cucina anche se con prestazioni lievemente diverse.

Proprietà termiche e costruzione degli strumenti
La conducibilità termica delle leghe ferro-carbonio diminuisce all’aumentare della temperatura; per semplicità, si consideri che, nell’intervallo 50-200 °C, la conducibilità si assesta sui 60-50 W m⁻¹ K⁻¹ per gli acciai, qualcosa di meno per le ghise. D’altro canto, il pentolame in ghisa è prodotto per fusione, cioè per colatura in stampi, di conseguenza tenderà ad aver uno spessore elevato, anche perché la ghisa è piuttosto fragile e lo strumento di cottura non sarebbe abbastanza solido se le pareti fossero sottili.
Gli strumenti in acciaio al carbonio, invece, sono lavorati a partire da un laminato che si sagoma per stampaggio, o da un blocchetto forgiato al maglio. In entrambi i casi, il materiale è più malleabile ed elastico della ghisa, per cui è possibile realizzare strumenti anche relativamente sottili e leggeri, come certi wok economici e le normali «padelle di ferro» casalinghe un tempo usate per saltare e friggere. Pertanto, a parità di diametro e sorgente termica, lo strumento in acciaio al carbonio –proprio grazie al minore spessore– sarà più responsivo della ghisa alle variazioni di calore, pur mantenendo un’ottima ritenzione termica.
La peculiarità del «ferro» è proprio la capacità di trattenere il calore. Ciò è vantaggioso in due casi: cotture brevi ad alta temperatura o cotture lunghissime a temperatura medio bassa e somministrazione incostante di calore. L’apparente contraddizione si risolve facilmente con due esempi.

Dalla bistecca al brasato: quando il ferro fa la differenza
Immaginiamo di dover cuocere al sangue una bistecca alta qualche centimetro. L’obiettivo gastronomico è cauterizzare velocemente l’esterno della carne, cuocendola all’interno quel tanto che basti a lasciare la sezione centrale al sangue o comunque ben rosata e ricca di succhi. È quindi imperativo che il metallo resti sempre ben al di sopra dei 100 °C, così che i liquidi inevitabilmente rilasciati dalla carne evaporino istantaneamente al contatto con la superficie di cottura, evitando lo sgradevole «guazzetto» che si forma di solito cucinando con padelle sottili e fornelli inadeguati. Formata la «crosticina», si potrà continuare la cottura in forno a temperatura più bassa, sfruttando anche il calore dell’aria. Il pentolame in acciaio al carbonio o in ghisa è eccellente anche in questo senso, poiché va senza problemi in forno, purché eventuali manici e pomelli realizzati in altri materiali lo consentano. Di solito, gli strumenti in ghisa hanno manicature corte, data la fragilità della lega, e fuse in blocco al corpo del recipiente, per cui sono i più adatti a passare agevolmente dal fornello al forno e viceversa.
Consideriamo invece la cottura di un ragù alla napoletana o di un brasato tradizionale, cioè con tagli duri di seconda e terza scelta. Si tratta di preparazioni che restano sul fuoco per ore: nel caso del ragù, per estrarre e concentrare al massimo la sapidità degli ingredienti; nel caso del brasato, per rendere commestibili carni dure e fibrose. Non è importante regolare finemente il calore né rosolare gli alimenti in trenta secondi, ma rimanere più o meno entro certe temperature il più a lungo possibile senza dover costantemente controllare la fiamma o preoccuparsi di eventuali spifferi che possano disturbarla (sembrerà una pignoleria, ma basta provare a cucinare qualche volta nel rame per rendersi conto di quanto una finestra aperta o chiusa faccia la differenza).
Nelle cucine di una volta, si lasciava tutta la notte la pignatta di ghisa – o quella, più economica, di coccio – sul piano della stufa a legna (donde il termine «stufare») o all’interno del camino, circondando la pignatta con le poche braci non ancora spente (donde il termine «brasare»). La cottura procedeva senza grossi sbalzi, a lungo e dolcemente; e anche una volta spento l’ultimo tizzone, il recipiente rimaneva caldo per ore, finché all’alba la massaia avrebbe trovato la ricetta ultimata e la pignatta probabilmente ancora tiepida.
Serva che cucina – tenuta Giddings, villaggio Greenfield, museo Henry Ford.

Induzione, sicurezza alimentare e barriere protettive
Tale potenzialità non è così necessaria oggi, a causa dei ritmi frenetici e delle mutate abitudini alimentari, ma è ancora largamente sfruttata in ambito professionale per tenere in caldo alcune basi di cucina, come i sughi rustici, ma anche zuppe di cereali e legumi, e varie preparazioni in umido. Al riguardo, si ricordi che, a differenza del comune acciaio inox, gli acciai al carbonio e le ghise sono naturalmente ferromagnetici, per cui si abbinano perfettamente ai piani a induzione, i più indicati per mantenere le pietanze in caldo a temperatura controllata.
Sul piano della sicurezza alimentare, il ferro arrugginisce se esposto all’aria, specie in ambienti umidi, ed è facilmente attaccato dagli acidi e dal sale. Anche nel caso delle leghe ferro-carbonio, dunque, è necessaria una barriera protettiva fra metallo e cibo, la quale si realizza tramite stagionatura con grassi o smaltatura (in passato si è usata, marginalmente, anche la stagnatura). Come vedremo, le due soluzioni hanno vantaggi e applicazioni diverse a seconda del tipo di lega ferrosa e dell’utilizzo in cucina.
Stagionatura
La stagionatura (ingl. seasoning) consiste nel rivestire la superficie dello strumento di cottura con un sottile strato di grasso, che poi viene portato a una temperatura tale da innescare una serie di reazioni di ossidazione e polimerizzazione. Se la procedura è ben eseguita, lo strato di grasso diventa una patina dura e compatta: oltre a impedire che il ferro arrugginisca, la patina evita cessioni di metallo al cibo e, come ulteriore vantaggio, rende la superficie di cottura parzialmente o totalmente antiaderente.
Esistono varie tecniche e non vi è consenso su quale sia la più idonea. Secondo una delle più semplici, si versa olio vegetale resistente alle alte temperature (olio di arachidi, per esempio) nello strumento da stagionare, lo si riscalda sul fornello fino al punto di fumo, si spegne il fuoco e si getta via l’olio. Si passa poi una salvietta di carta o uno strofinaccio pulito per continuare a rimuovere quanto più olio possibile, lasciando solo un velo di grasso ormai polimerizzato. La patina così formata è precaria e presuppone un uso frequente dello strumento, affinché i ripetuti riscaldamenti consolidino la patina esistente e la rafforzino con piccoli apporti di grasso a ogni nuovo utilizzo.
Per velocizzare il processo e ottenere una patina più omogenea, tecniche di stagionatura più complesse prevedono cicli ripetuti di riscaldamento e raffreddamento, ciascuno dei quali è finalizzato ad aggiunger uno strato polimerizzato a quelli esistenti, fino a che la superficie di cottura diventi nera e lucida. Taluni suggeriscono di stagionare con olio di lino alimentare, che ha un basso punto di fumo (appena 105 °C rispetto agli oltre 230 °C dell’olio di arachidi) e spiccate proprietà siccative, cioè tende a ossidarsi e polimerizzare già a temperatura ambiente. Secondo i fautori dell’olio di lino, cinque o sei cicli di stagionatura produrrebbero una patina particolarmente tenace e antiaderente.
Alla luce di quanto detto, il termine «stagionatura» evidentemente è improprio giacché il trattamento non incide sulle caratteristiche della lega ferrosa, ma per convenzione lo si può accettare nel senso che dona allo strumento un aspetto vissuto, appunto «stagionato». Il paradosso è che la stagionatura punta a preservare l’«eterna giovinezza» dello strumento, non certo a invecchiarlo.
Certo, nemmeno la stagionatura più accurata dà una protezione definitiva. La patina può consumarsi in presenza di alimenti acidi e sollecitazioni meccaniche (sfregamento e graffiatura con spatole e altri utensili), come pure in seguito a lavaggio con comune detergente per piatti. Ci si rassegni, in tal caso, a ristagionare lo strumento, oppure a usarlo privo di patina, in attesa che, con l’uso, questa si riformi.

Smaltatura e considerazioni finali
La smaltatura è una tecnica antica, ma per il pentolame è impiegata solo dalla metà dell’Ottocento. Lo smalto, applicato allo strumento di cottura per immersione o spruzzamento, è cotto ad alte temperature e si trasforma in un rivestimento duro e lucido, simile all’invetriatura della porcellana. I prodotti d’alta gamma, di solito, prevedono più smaltature sovrapposte per una maggior resistenza del rivestimento all’usura, ai graffi e agli urti.
La sicurezza alimentare della smaltatura, ovviamente, dipende dalle componenti dell’impasto e da una corretta lavorazione. Come per tutto il pentolame, specie quello destinato all’uso professionale, è in genere condivisibile il criterio di preferire quei marchi i cui prodotti abbiano superato il test del tempo e guadagnato la fiducia del consumatore. Il pentolame smaltato, per giunta, è oggi una tipologia assolutamente di nicchia, tanto che la scelta per il consumatore europeo si circoscrive a due-tre marchi, che non citeremo perché notissimi, tutti compresi nella fascia di prezzo alta e medio-alta.
Dando per acquisita la salubrità del rivestimento, i vantaggi rispetto alla stagionatura con grasso sono numerosi, anche se con alcune limitazioni d’uso: la smaltatura resiste all’attacco del sale e dei cibi acidi, come pure dei detergenti e dell’umidità. Il prodotto smaltato quindi non si ossida né arrugginisce, e può essere lavato a mano come ogni altra stoviglia.
I produttori, tuttavia, consigliano di non aggiunger il sale a fuoco spento, dal momento che depositi di sale sul fondo del recipiente potrebbero opacizzarne la smaltatura. Analogamente, si sconsiglia il lavaggio in lavastoviglie, i cui detergenti potrebbero rivelarsi troppo aggressivi. Si dovrebbero evitare anche spatole e altri utensili metallici per non rigare la smaltatura, la quale, a differenza della stagionatura, non si può ripristinare.
Rispetto alla stagionatura, che per sua natura è elastica e segue la dilatazione del metallo cui è applicata, la smaltatura è rigida e sensibile agli shock termici. Pertanto, se un bollitore da tè smaltato può esser tranquillamente realizzato in acciaio al carbonio sottile o perfino in lamierino di ferro, i pezzi destinati alle alte temperature e soprattutto alla cottura in forno più opportunamente sono in ghisa, che si dilata meno dell’acciaio al carbonio (1 × 10⁻⁵ vs 1,2 × 10⁻⁵) e si deforma pochissimo anche alle temperature più alte.
Due limitazioni importanti devono esser tenute presenti: la smaltatura non è antiaderente e pertanto non consente cotture senza grassi, a parte ovviamente bollitura e tostatura; inoltre, i produttori raccomandano di non scaldare a vuoto gli strumenti smaltati, pratica invece del tutto possibile con gli strumenti non rivestiti o semplicemente stagionati.
In conclusione, il «ferro» merita un posto di tutto rispetto in cucina: robusto, versatile, naturalmente compatibile con l’induzione, è un materiale facilmente reperibile, ecosostenibile e completamente riciclabile. Se prodotto e mantenuto correttamente, non comporta rischi per la salute e dura una vita; anzi, diverse vite. L’elevata densità rende gli strumenti meno maneggevoli soprattutto di quelli in alluminio, ma in cambio più resistenti alle deformazioni causate dal calore e dalle sollecitazioni meccaniche. Infine, se acciaio al carbonio e ghisa non sono buoni conduttori di calore, d’altro canto hanno prestazioni eccellenti in termini di accumulazione e ritenzione termica.
Carmine F. Milone
Tecnologo alimentare